Quali sono le differenze tra una relazione conflittuale e una relazione violenta in ambito domestico? Ma soprattutto … perché è importante saperlo?
Per tutte le violenza consumate su di lei, per tutte le umiliazioni che ha subito, per il corpo che avete sfruttato, per la sua intelligenza che avete calpestato, per l’ignoranza in cui l’avete lasciata, per la libertà che le avete negato, per la bocca che le avete tappato, per le ali che le avete tagliato, per tutto questo: in piedi Signori, davanti a una Donna!
(W. Shakespere)
IL CICLO DELLA VIOLENZA
Nella maggior parte dei casi la violenza assume una forma ciclica, gli aggressori alternano momenti di tenerezza e dolcezza ai maltrattamenti questo è una delle componenti che non permette alla donna di uscire dalla relazione perversa. Lenore E. Walker (psicologa americana fondatrice del Domestic Violence Istitute che elaborò il ciclo della violenza nel 1979 grazie ad un indagine condotta su 435 donne maltrattate basata sulla Social Learning Theory) ha descritto la forma ciclica in cui si sviluppa la violenza domestica individuando quattro fasi che si ripetono nel tempo ed aumentano di volta in volta i pericoli per la vittima.
- Fase di accumulo di tensione: in cui la violenza non si manifesta in modo diretto, ma il maltrattante inizia ad assumere atteggiamenti ostili nei confronti della donna. Si riscontrano quindi in questa fase la violenza verbale e alcuni aspetti della violenza psicologica, infatti l’uomo giustifica il suo comportamento con lo stress dovuto al normale svolgersi della quotidianità, accusando però la donna di essere responsabile delle sue insoddisfazioni. Dall’altro lato la vittima cerca di calmare la situazione, convinta di poterla controllare, cerca di essere gentile e accondiscendente a tutte le sue richieste, attenta ad evitare domande e gesti che possono peggiorare il contesto. Tecnicamente in questa fase si dice che la donna “cammini sulle uova”, nel senso che calcola ogni suo comportamento e atteggiamento in modo da non innescare una reazione violenta da parte del partner. Questo genera ansia, paura e confusione nella donna
- Fase dell’esplosione della violenza (maltrattamento): ” l’uomo passa all’attacco, scoppia la tensione e la violenza diretta. Arriva così la violenza fisica che cresce gradualmente: i primi episodi generalmente sono caratterizzati da parole offensive, denigratorie o minacce, ma ad ogni ciclo questa fase può intensificarsi in base ad una escalation che può prendere avvio con l’accanimento verso oggetti materiali, per passare a calci, schiaffi, spintoni, pugni ecc. nei confronti della vittima per giungere anche all’uso di oggetti contundenti o alla violenza sessuale. L’uomo dimostra che ha il potere sulla partner. Lei, grazie alla fase precedente, prova paura e non ha modo di reagire, ogni sua reazione potrebbe portare ad un aumento di violenza da parte del compagno, vede come unica soluzione quella di restare sottomessa
- Fase del pentimento e della rappacificazione: caratterizzata da scuse. L’aggressore cerca di far dimenticare l’accaduto alla donna sviluppando in lei il senso di colpa. L’uomo minimizza e giustifica il suo comportamento, promettendo che non succederà mai più. Molto spesso per discolparsi sostiene che è stata lei a provocarlo, oppure è stata colpa dell’alcool o del troppo lavoro. La vittima che dopo la violenza è esausta, crede a tutto ciò che le viene detto convinta che cambiando il suo comportamento possa in seguito prevenire lo scoppio della violenza. Qui subentra il meccanismo delle minimizzazioni da parte della donna, che cerca di convincersi che “è stato solo un episodio” “sono in grado di controllarlo” “se io non gli avessi detto/se io non avessi fatto ciò, non sarebbe accaduto”, meccanismo che va di pari passo con i tentativi dell’uomo di discolparsi, es. “sono molto nervoso per la situazione economica” “sono molto stressato dal lavoro”. Subentrano quindi i pentimenti che portano alla fase 4
- Fase della “luna di miele”: Alla fase di scuse segue l’ultima fase definita spesso “la luna di miele” in cui l’aggressore si trasforma nell’uomo più dolce e tenero di questo mondo. Questo momento è costellato da fiori, regali e inviti al ristorante e agli occhi della donna sembra davvero pentito pensando che con il suo amore tutto possa tornare come al primo incontro. È sempre l’autore violento che decide l’inizio e la fine di questa ultima fase, i cicli con il passare del tempo si ripropongo con intensità crescente simulando una spirale.
Col passare del tempo la fase della luna di miele si può accorciare, facendo ricominciare molto prima il ciclo della violenza e aumentando di intensità.
C’è da sottolineare che le fasi non hanno un tempo standard e definito. Può passare anche molto tempo tra una fase e l’altra, a volte così tanto che è difficile riconoscere se effettivamente ci troviamo davanti ad una relazione violenta.
La teoria elaborata dalla Walker è stata poi approfondita in altri studi ed è stata recepita anche dalla Suprema Corte di Cassazione.
La domanda ricorrente è: perché la donna già al primo episodio di violenza non si allontana?
La vittima all’inizio è convinta che sia un episodio unico, al secondo si convince che può tenerlo sotto controllo, ma man mano che la situazione si protrae nel tempo viene completamente soggiogata dalla paura. Solo dopo vari episodi di maltrattamento, quando si rende conto che la situazione è ormai insostenibile, la donna prende consapevolezza e si rivolge ai Servizi per iniziare il suo percorso di fuoriuscita dalla violenza.
Ricordiamoci, però, che ogni donna ha i suoi tempi, le sue motivazioni, il suo background socio-culturale e psicologico (es. ci sono donne che hanno visto il padre maltrattare la madre o già dall’infanzia hanno subito qualche tipo di violenza in famiglia e quindi sono convinte che la situazione sia normale), per cui ogni storia deve essere ascoltata, ogni donna deve essere accolta e soprattutto la vittima non deve essere giudicata
Lenore Walker, attraverso la formulazione del ciclo della violenza, in cui l’abuso è perpetuato nel tempo a causa della sua alternanza, ha spiegato la resistenza della donna all’interno della relazione perversa attraverso la “Sindrome della donna maltrattata”. Questa sindrome è riscontrata nelle donne che abbiano subito almeno due cicli di violenza. Nelle vittime di maltrattamenti familiari si riscontrano una serie di caratteristiche psicologiche che non permettono di lasciare il compagno. Con lo svilupparsi del ciclo della violenza la donna apprende un senso di impotenza, facendole diventare paralizzata del trauma. Gli abusi diventano imprevedibili e incontrollabili, non sanno per quale motivo si scatenerà. A questo punto sono coscienti che qualunque cambiamento nel proprio comportamento non placherà le ire del partner, continuano comunque a sperare che lui possa subire un cambiamento. Anche altre sono le cause che alimentano la tolleranza e tra queste troviamo la dipendenza economica, la paura di rimanere sole, la minaccia di portarle via i figli nel caso lei progetti di lasciarlo, la perdita di autostima e la depressione, lo svilimento psicologico che non gli permette di vedere via di uscita. Inoltre nelle donne sono comuni i sensi di colpa, il credere nella subordinazione femminile e utilizzo del sesso con la convinzione che possa ristabilire l’intimità perduta. Isolate e controllate smettono di cercare aiuto all’esterno, dall’altra credono di meritarsi tutto questo.
Troppo spesso le parole CONFLITTO e VIOLENZA vengono usate come sinonimi, ma nelle relazioni interpersonali, specialmente di coppia, questo accostamento non si può fare, perché le due parole hanno in realtà significati ben diversi. Ciò che differenzia la relazione conflittuale dalla relazione violenta è l’esercizio del potere: infatti, nella conflittualità c’è parità di potere, mentre nella violenza c’è disparità di potere. In particolare:
Il conflitto è caratterizzato da:
- Consenso alla lotta da parte di entrambi (= litigio)
- Situazione paritaria fra i due partners (= simmetria)
- Non c’è intenzione di sottomissione o umiliazione o annientamento
Al contrario, la violenza è caratterizzata da:
- Condizione di supremazia di uno sull’altro (= asimmetria e unilateralità)
- Uso intenzionale della forza fisica o psicologica per dominare l’altra persona
- Lo scopo delle azioni o delle parole usate è quello di ferire, sottomettere, umiliare l’altra persona
- La vittima subisce un danno fisico, sessuale o psicologico, talvolta anche permanente
Una relazione conflittuale può trasformarsi in una relazione violenta nel momento in cui uno dei due partner non reagisce più al conflitto, perché subentra la paura delle reazioni dell’altro e degli effetti che queste possono provocare.
La violenza domestica contro le donne, va oltre la violenza fondata sulla discriminazione di genere e ruolo, oggetto della Convenzione di Istanbul, il trattato internazionale di più ampia portata che affronta il tema della violenza contro le donne e della violenza domestica entrata in vigore in Italia nell’agosto del 2014, con la dicitura “violenza nei confronti delle donne” si riferisce a tutte quelle forme di violenza contro le donne fondate sulle differenze e sulla discriminazione di genere e del ruolo socialmente impartito: la violenza psicologica, lo stalking, la violenza fisica, la violenza sessuale, il matrimonio forzato, le mutilazioni genitali femminili, l’aborto forzato e la sterilizzazione forzata, le molestie sessuali.
E’ ancora più subdola ed è definita come violenza fisica, sessuale, psicologica e economica che si verifica all’interno della famiglia o del nucleo familiare o con gli attuali o precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore della violenza condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima.
Le tipologie di violenza domestica
Come appena visto, esistono delle peculiari forme di violenza domestica e ora le descriverò nel dettaglio:
- con il termine violenza fisica ci si riferisce a tutti quei comportamenti che il partner agisce sul corpo della donna per spaventarla o farle del male. Un esempio ne sono gli schiaffi, i calci, i pugni, e qualsivoglia aggressione che può mettere in pericolo la salute e la vita della donna;
- per violenza sessuale (classificata non più come un crimine contro la morale pubblica, bensì come un crimine contro la libertà personale, Legge n°66 del 1996) si intende qualsiasi atto sessuale o tentativo di approccio sessuale imposto con la violenza o la minaccia; la donna in questi casi viene trattata dell’abusante come fosse “una cosa” in suo possesso;
- la violenza psicologica consiste in comportamenti volti all’umiliazione e alla svalorizzazione della vittima. Può implicare insulti, controllo, minacce, intimidazioni e/o persecuzioni. Tipicamente la donna e le sue capacità (il suo aspetto fisico, le sue capacità cognitive, genitoriali, lavorative) sono oggetto di critiche e giudizi negativi. Questo tipo di violenza può intaccare la struttura identitaria della donna, privandola della libertà di pensiero, dell’autonomia, minandone l’autostima fino ad abbassare la fiducia in sé stessa e quindi minacciando il diritto stesso all’autodeterminazione;
- la violenza economica consiste nella limitazione dell’accesso alle proprie disponibilità economiche o della famiglia. L’uomo violento prende infatti il pieno controllo delle spese, delle entrate e delle uscite, escludendo la donna dalla gestione del bilancio familiare e dunque limitandone ancora una volta l’autonomia.
Che differenze ci sono tra Conflitto e Violenza in ambito domestico?
È chiaro come l’elemento principale che denota la violenza domestica sia l’asimmetria della posizione di potere e controllo tra i due partner.
Per quanto riguarda il conflitto familiare invece, nella coppia non troviamo asimmetria , entrambi i partner infatti hanno lo stesso grado di potere e controllo e la loro posizione vede pertanto un bilanciamento simmetrico.
Nella distinzione tra le due condizioni ciò che è centrale in situazioni di violenza domestica sono il controllo coercitivo e la sopraffazione da parte del maltrattante. Il fattore dell’abuso di controllo può portare la donna ad annullarsi come individuo e ciò che ne consegue è una limitazione della libertà personale e una sottomissione alle esigenze dell’uomo.
Le emozioni che contraddistinguono i due partner in una relazione violenta sono di terrore e angoscia da una parte e vissuti di onnipotenza dall’altra.
Perché è necessario che si conosca questa distinzione?
Identificare, dunque, il conflitto e tracciare un confine chiaro che possa permettere di distinguerlo dalla violenza potrebbe essere d’aiuto al fine di poter individuare e prevenire quegli elementi che danno vita ad una dinamica di violenza domestica.
E’ importante anche per orientare la difesa: l’avvocato dal racconto della cliente deve capire se è di fronte ad una relazione conflittuale che può essere affrontata” alla pari” e potrà quindi anche cercare di arrivare ad una soluzione del conflitto oppure se è di fronte ad una relazione violenta, dove ad esempio non sarà neppure possibile ricorrere alla mediazione familiare
Affrontare nel modo corretto la situazione che si pone davanti al legale, permette anche di cercare di evitare alla cliente la vittimizzazione secondaria cioè la recrudescenza della condizione di sofferenza della vittima che è riconducibile alle modalità in cui le istituzioni hanno operato a seguito della denuncia della donna.
Tutte quelle situazioni in cui le donne diventano vittima una seconda volta:
nei tribunali,
nei percorsi legali e sanitari,
nella rappresentazione dei media,
nel contesto sociale,
nel giudizio delle scelte di vita.
L’effetto della vittimizzazione secondaria è quello di scoraggiare la denuncia, da parte della donna, della violenza subita per mano del partner che spesso è anche il padre dei suoi figli.
Come si configura la vittimizzazione secondaria
Generalmente i reati di genere colpiscono non solo la fisicità della persona ma soprattutto la sfera più intima e personale della stessa. Si pensi ad un reato di violenza sessuale. Oltre alle possibili conseguenze fisiche ed al dolore provato, sono le conseguenze psicologiche ad essere le più gravi. La sensazione di paura, di essere impotenti, di non sapere cosa succederà e quando finirà l’azione criminosa sono aspetti che la vittima porterà sempre con sé. La sola idea di dover rivivere le crudeltà subite (prima denunciando, poi essendo sentita a sommarie informazioni e infine testimoniando in tribunale) è già di per sé un deterrente molto forte affinché venga sporta la denuncia.
Ma non solo. Altri aspetto si deve aggiungere anche quello dell’opinione pubblica. Infatti troppo spesso si sente dire: “certo, lei non doveva andare in giro così vestita”; o ancora “è stata lei a provocarlo” ecc.. Queste espressioni fanno sì che la vittima si colpevolizzi finanche ad arrivare ad assumersi la responsabilità di ciò che è successo. Conseguentemente si manifesta in lei anche un senso di vergogna e di disonore tale da inibire la voglia di giustizia.
Per fare un altro esempio, nel caso di violenze fisiche familiari, dove il marito è violento sia con la madre che con i figli, la vittimizzazione secondaria si configura nel momento in cui, per esempio, le istituzioni con la semplice frase “Ma lei perché non ha denunciato prima per proteggere i suoi figli?” trasferisce la responsabilità dei fatti criminosi su di lei. Nel caso che commento sotto, la donna, in condizione di inferiorità psicologica nei confronti del marito/padre/padrone, non aveva mai denunciato i fatti pregressi perché impaurita dalla possibile reazione violenta e soprattutto perché oramai persuasa di essere inadeguata e sbagliata al punto tale che si meritava le violenze che subiva.
Vorrei ricordare la sentenza del GUP di Roma Drssa Di Nicola n. 2412/2019 dove la vittimizzazione secondaria viene ben evidenziata:
1. fatto: una donna ricoverata viene raggiunta in ospedale dai genitori e dai figli e questi ultimi vittime dell’ennesimo episodio di violenza da parte del padre. Dopo questo episodio decide di denunciare tutti gli episodi di violenza subiti da lei e dai figli nel corso degli anni. La donna era completamente soggiogata psicologicamente dal marito il quale oltre a perpetrare violenze fisiche la minacciava di toglierle i figli se avesse mai riferito tali episodi, ricordandole che era anche senza lavoro. Il PM ex art. 609 decies cp trasmette gli atti al Tribunale dei Minorenni il quale dispone la sospensione della responsabilità genitoriale per entrambi i genitori (vittimizzazione secondaria)
La ricostruzione dei fatti evidenzia che la donna era vittima di abusi non solo fisici ma anche psicologici che hanno determinato una condizione di estrema vulnerabilità che negli anni si era configurata a causa di dipendenza affettiva, economica, psicologica nei confronti del marito. Obiettivo irrinunciabile per la vittima è la conservazione del nucleo familiare.
Vorrei leggere poche righe tratta dalla sentenza citata:
PAG 4 – 6 Il Carabiniere che ha acquisiti la denuncia chiede: MA NON CREDE FOSSE IL CASO CHE LEI AVESSE DENUNCIATO PRIMA I FATTI PER TUTELARE SE STESSA E I BAMBINI? Questo è un interrogativo inconsapevolmente colpevolizzante tanto che Lei risponde: MI SENTO IN COLPA, NON DOVEVO LASCIARLI DA SOLI CON LUI e spiega il motivo della mancata denuncia: NON HO MAI SPORTO DENUNCIA PER PAURA DI PERDERE I BAMBINI….ME LI AVREBBE TOLTI PERCHE’ NON ERO IN GRADO DI SOSTENERMI ECONOMICAMENTE DA SOLA
PAG 9: Lui ammette di aver picchiato la compagna: HO PICCHIATO MIA MOGLIE SENZA VIOLENZA, NON ERO CATTIVO (la violenza come atto normale)
PAG 11-12: Trib. Minorenni che avrebbe dovuto assumere provvedimenti urgenti nei confronti del padre invece ha sospeso la genitorialità anche alla persona offesa: TALE SOSPENSIONE VA PREVISTA ANCHE PER LA MADRE ATTESA LA CONDOTTA NON TUTELANTE NEI CONFRONTI DEI FIGLI…….
2. La Drssa Di Nicola rileva che la vittimizzazione secondaria subita dalla donna è consistita nel fatto che:
La donna è stata oggetto di una inconsapevole inversione dei ruoli attribuendo alla vittima, sia una indiretta responsabilità nella condotta illecita del marito, consentendo la reiterazione del reato, sia l’omesso onere di sottrarsi alla violenza;
La valutazione effettuata dal Trib. per i Minorenni ha considerato la madre non in grado di tutelare la salute dei propri figli
Anche la Corte EDU con la sentenza 27 maggio 2021 J.L. / Italia ha puntualizzato alcuni stereotipi che portano alla vittimizzazione secondaria:
Fatto: una studentessa di 22 anni nel 2008 sporge querela per la violenza sessuale subita da sette persone in un auto. In primo grado Tribunale di Firenze condanna sei persone, in Appello la sentenza viene riformata assolvendo gli imputati. La sentenza passa in giudicato. La ragazza ricorre alla Corte EDU
La Corte EDU ha condannato l’Italia al risarcimento dei danni morali subiti dalla ragazza non tanto per la pronuncia di assoluzione quanto per il contenuto della sentenza in particolare l’ingiustificato rilievo dato dalla Corte di Appello di Firenze alle abitudini di vita della vittima, sminuendone la credibilità e minimizzando la violenza subita. Infatti la C.A. di Firenze ha vagliato analiticamente l’orientamento sessuale della vittima, la sua condizione familiare, le scelte dell’abbigliamento (lingerie rossa) o le attività artistiche e culturali svolte e le ha ritenute determinanti ai fini dell’assoluzione.
La conclusione dei Giudici (due donne ed un uomo) è stata che la denuncia e il procedimento penale hanno rappresentato la risposta della ragazza ad un “discutibile momento di debolezza e di fragilità che una vita non lineare come la sua avrebbe voluto censurare e rimuovere”
La Corte EDU nell’accogliere il ricorso della vittima ritiene che il linguaggio e gli argomenti utilizzati nella pronuncia riflettano pregiudizi e stereotipi sul ruolo delle donne contribuendo ad ostacolare l’effettiva tutela dei diritti delle vittime di violenza di genere.
Anche porre in rilievo aspetti della vita privata della ricorrente del tutto irrilevanti per valutarne la credibilità e la responsabilità penale degli imputati, che invece dovevano rimanere riservati, e’ vittimizzazione secondaria.
Infatti l’obbligo di tutela delle vittime di violenza di genere impone di proteggerne l’immagine, la dignità e la privacy, anche non divulgando informazioni e dati personali non correlati con i fatti.
La Corte EDU evidenzia come i procedimenti e le sanzioni penali svolgano un ruolo cruciale nella risposta istituzionale alla violenza di genere e alla lotta a questo tipo di disuguaglianza.
L’Autorità Giudiziaria deve evitare di riprodurre stereotipi sessisti nelle proprie decisioni, esponendo le donne ad una vittimizzazione secondaria mediante l’uso di commenti colpevoli e moralizzanti che possono scoraggiarne la fiducia nella giustizia.
Infine in detta sentenza si evidenzia come anche nel settimo rapporto sull’Italia del Comitato delle Nazioni Unite per l’eliminazione della discriminazione contro le donne e il rapporto GREVIO hanno rilevato la persistenza di stereotipi sul ruolo della donna e la resistenza della società italiana alla causa dell’uguaglianza di genere.
“Il linguaggio e gli argomenti utilizzati dalla Corte di Appello trasmettono i pregiudizi sul ruolo delle donne che esistono nella società italiana e sono suscettibili di impedire l’effettiva protezione dei diritti delle vittime di violenza di genere nonostante un quadro normativo sufficiente.” Proprio allo scopo di prevenire la vittimizzazione secondaria l’Aiaf sta cercando di affrontare questi temi in modo tale che tutti i soggetti interessati, siano operatori di polizia giudiziaria, siano magistrati, avvocati e altri organi preposti, possano acquisire le competenze necessarie ad equilibrare le esigenze delle vittime.